Venditti: così ho scoperto Roma

Antonello Venditti durante un concerto
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Mercoledì 14 Ottobre 2009, 16:00 - Ultimo aggiornamento: 15 Ottobre, 23:28
ROMA (14 ottobre) - Me lo diceva sempre mia madre, Antonello caro, l’importante che tu sia infelice. E, quando ha deciso di scrivere un libro e raccontarsi, Antonello Venditti quella frase l’ha voluta come titolo, come spunto per un viaggio nella propria memoria in cui mettere insieme aneddoti, personaggi, racconti semplici, l’adolescenza passata nel quartiere Trieste, la scoperta del centro di Roma, città che sarebbe diventata ispirazione di tante canzoni e che, fino ad allora, non aveva mai visto, le vacanze a Olevano romano, l’amicizia con De Gregori, gli anni del Folkstudio, quelli della contestazione studentesca, quelli della Rca, quelli del successo, i rapporti con la casa discografica (che non voleva che si sposasse con Simona Izzo perché temeva che il pubblico femminile gli volgesse le spalle), gli incontri con Fellini e il Dalai Lama. Il centro della narrazione di “L’importante è che tu sia infelice”, 146 pagine pubblicate da Mondadori, però è l’ambiente familiare: il padre anarchico, un fratello mai nato, una madre che avrebbe preferito un figlio avvocato: «Quando comprai la casa di Trastevere ci portai subito mamma, ma lei non varcò la soglia - scrive Venditti - Rimase a guardarla da fuori perché c’erano cinque scalini. Non che non potesse farli, piuttosto detestava l’idea che non fosse stata pensata su misura per lei. Era una casa per me, un meraviglioso spazio senza di lei, quindi non andava bene».



di Antonello Venditti



Ero al Teatro dei Satiri in uno spettacolo intitolato Racconto con De Gregori e Cocciante. Alla seconda serata una signora del pubblico aveva biascicato disaccordo, in tono blando. A fine concerto arrivò il maresciallo perché aveva sporto denuncia.

Non diedi peso alla vicenda finché non mi ritrovai davanti al giudice e fui condannato per vilipendio alla religione dello stato. A mia madre prese un colpo quando lesse i giornali.



L’oggetto del contendere era la frase “Ammazzate Gesù cri’ quanto sei fico”, un’offesa secondo il tribunale, il quale ignorò che in romano quell’aggettivo è ritenuto un complimento. La canzone l’avevo scritta nel 1967, all’inizio della Guerra dei sei giorni e periodo in cui, nei licei, stava nascendo un nuovo dialetto. Gli studenti coniavano il sinistrese, producevano nuovi linguaggi mischiando la cultura accademica ai neologismi creati al mercato o dai meccanici. Io stesso mi ritrovai costruttore di neologismi: Le cose della vita, Sotto il segno dei pesci, Roma capoccia non si usavano, semmai si diceva I casi della vita, Nel segno dei pesci e Roma caput mundi. Questo, il tribunale, non lo considerò. Era l’ennesimo ragguaglio di un’Italia bigotta, divisa sul divorzio, incline alla censura. La Rai aveva la commissione apposita di vigilanza e quando la canzone Compagno di scuola capitò fra le mani di un dirigente fui immediatamente convocato: «Senta Venditti, non mi è chiara la parte di testo “la dava a tutti meno che a te”. Ma cosa dava quella ragazza?». Cercai di farmi intendere, alla fine capì e disse che la frase non poteva assolutamente passare alla radio perché “creava tensione nelle famiglie. Se la cambia, sarà ammesso”.



La trasformai allora in “filava tutti meno che te”. Andai in studio, tagliammo il brano, lo ricantai. Tornai dal dirigente, gli consegnai il nastro, e quello s’infuriò, la prese sul personale oltre che sull’aziendale. Era successo che il fonico Enzo Martella, abituato a sentire la frase originale senza provare fastidio alcuno, si era sbagliato e in pratica aveva rimontato lo stesso identico pezzo incriminato: io la rivolevo e lei non me la ridava. fummo costretti a posticipare l’uscita dell’album Lilly.



Un anno dopo la denuncia di A Cristo ci fu il mio

matrimonio e ancora i giornali titolavano “Il blasfemo Venditti si sposa”. Simona l’avevo conosciuta proprio in occasione dello spettacolo Racconto. Siccome non portava allegria ed era una pillola piuttosto amara per il pubblico estivo, gli interventi di quella bella ragazza lo avrebbero alleggerito. Lei mi affascinava molto. Era figlia della borghesia romana, nata e cresciuta in un ambiente colto, creativo, prototipo della vita slow motion. La corteggiai a lungo senza successo, poi a settembre, nella piazza di Avezzano decise che dovevo essere suo. Capii che era assolutista, sentivo che esisteva, c’era compatibilità, non potevo far finta che fosse di passaggio.



Un anno dopo tutti gli alberghi italiani si sarebbero accorti della nostra rumorosa presenza. Testimone diretto delle liti era il nostro cucciolo di Bobtail, un omaggio alla figura di Serpico. Lo chiamammo Paco e lo andammo a prendere con la Citroën CX sotto l’aereo che veniva dall’Irlanda. Lo citai nella canzone L’amore non ha padroni e in Dimmelo tu cos’è, nella frase “Il nostro cane non mi riconosce più”.

La Rca era contraria al mio matrimonio perché convinta che potesse allontanare il pubblico femminile. Fui il primo a fare questo passo, dopo seguirono Baglioni, De Gregori, Gaber, De André.



La nostra coppia era perseguitata dalle riviste scandalistiche, e i giornali di sinistra storcevano la bocca se ci trovavano a partecipare a un evento mondano o semplicemente se scoprivano che ci eravamo concessi il lusso di una bifamiliare con piscina.



Nel ’75 Enzo Caffarelli di Ciao 2001 scrisse un articolo intitolato “canzoni e un po’ di champagne” in cui criticava me e De Gregori perché ci proclamavamo compagni eppure alloggiavamo all’hotel Bellevue di Rimini, giocavamo a poker e sorseggiavamo spumante.



Ancora oggi sono soliti rivolgerci la stessa democristiana critica e propinare la stessa ottusa idea che se sei ricco non puoi essere di sinistra. In risposta a Caffarelli scrissi la canzone Penna a sfera.

Fui anche il primo fra i cantautori a sperimentare sulla pelle che la nascita di un figlio non poteva allontanare il pubblico femminile. Lavoravo all’album Ullàlla ad Anzano del parco, provincia di Como, e il 15 agosto lasciai tutto in fretta e furia perché Simona stava per partorire. Oltre a incontrare il traffico di Ferragosto, incappai nello sciopero della benzina, e per arrivare a Roma ci impiegai la bruttezza di ventiquattro ore.



Mio figlio Francesco alla fine nacque il 27 agosto: dopo dodici giorni di attesa e numerosi falsi allarmi, accolsi la notizia dal divano di casa. Quando mi chiamarono, la prima cosa che feci, stupido e paranoico come solo un neopapà sa essere, fu di chiedere se aveva tutte le dita.
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