Luca De Meo, numero uno di Seat

Seat, De Meo: «Entriamo solo nei segmenti dove possiamo arrivare almeno al 5%»

di Mattia Eccheli
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BARCELLONA – Luca de Meo, il manager italiano diventato “famoso” alla corte di Marchionne, autore del libro “Da 0 a 500. Storie vissute, idee e consigli da uno dei manager più dinamici della nuova generazione” (Marsilio), ingaggiato dal gruppo Volkswagen, transitato in Audi e promosso a numero uno di SEAT, deve gestire il lancio del primo Suv spagnolo, Ateca.

Domanda direttissima: quanti ne volete vendere?

“Di solito di volumi ne diamo pochi, ma diciamo che in questo caso per noi è importante riuscire ad avvicinare il 4-5% di quota, come per qualsiasi altro modello con il quale presidiamo un segmento”.

Immagino la risposta, ma la spiegazione di un manager è sicuramente migliore.

“Quando arrivi al 5% esisti, quando arrivi al 10% sei nella shopping list e quando in Europa arrivi al 20% sei al top, sei la Golf, per capirci. Non ha senso sprecare energie per non arrivare a quell'obiettivo. Lo dico sempre ai miei che dobbiamo entrare solo in quei segmenti dove abbiamo la speranza e la possibilità di arrivare almeno al 4-5%”.

Nessun timore di una cannibalizzazione tra modelli del gruppo?

“Affrontiamo il tema ogni volta che lavoriamo ad un progetto: è un argomento, come dire, "integrato". Solo che nella mia esperienza di sei/sette anni nel gruppo, il livello che consideriamo non è mai troppo lontano dalla realtà. E non si è mai trattato di percentuali a due cifre. Ci sono progetti che non vedono la luce perché il rischio di cannibalizzazione è troppo alta”.

Un De Meo e due Domenicali: il gruppo Volkswagen non ha mai avuto tre manager italiani a capo dei marchi...

“Buono, no?”

Significa che...

“...Che non siamo poi tanto male. Seriamente: quando la combinazione tra latini e tedeschi funziona è perfetta. Naturalmente bisogna sapersi venire incontro. Personalmente in Germania mi sono divertito molto, a lavorare. È stata una grandissima esperienza ed ho sentito di portare qualcosa all'organizzazione. Allo stesso tempo ho imparato molte cose che io non sapevo”.

Dodici marchi sono tanti.

“Una delle magie del gruppo Volkswagen è sempre stata la capacità di rispettare la storia, l'eredità e la cultura imprenditoriale delle aziende. A Sant'Agata sono italiani e c'è Stefano (Domenicali, ndr),  a Ducati c'è Claudio (Domenicali, ndr). E io sono un italiano a Barcellona, ma ce ne sono talmente tanti...”.

Nel gruppo sono sempre stati gli ingegneri a contare: lei ha un'altra preparazione...

“Purtroppo nessuno è perfetto (sorride, ndr)”.

Quindi?

“La Germania è un paese industriale e nell'industria sono i tecnici che comandano ed è un bene che sia così. Il differenziale competitivo che ha la Germania è legato alla competenza tecnica che molte centinaia di migliaia di persone hanno. Mi auguro che si continui in questa direzione... se poi ci sono un paio di eccezioni, va bene”.

Se le dico che, secondo me, lei è stato mandato qui a studiare da top manager?

“Rispondo che è una sua speculazione giornalistica”.

Però ha la responsabilità di un intero marchio...

“L'avevo già fatto in Fiat dieci anni fa. In parte sono competenze che avevo già sviluppato, ma non si finisce mai di imparare”.

Dove vuole arrivare, lavorativamente parlando, intendo?

“Non sono un social climber, se è questo che vuole sapere”.

No, non intendevo questo.

“Guardi: mi sono trovato presto nella mia carriera molto al di là di quanto io immaginassi e mi sono posto delle domande, perché non mi motivano né il potere né i soldi. Ci sono due cose che mi fanno entrare in carburazione. La prima è affrontare situazioni che nessuno prima è riuscito a risolvere”.

E la seconda?

“Vedere la gente che cresce attorno a me: organizzazioni che si sviluppano e migliorano, un team che diventa migliore di me. Faccio un bellissimo lavoro”.
 

 

 

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Lunedì 18 Luglio 2016 - Ultimo aggiornamento: 27-09-2016 13:52 | © RIPRODUZIONE RISERVATA
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