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Da Volkwagen a Bmw e Ikea, gli investimenti europei in Cina sembrano non avere ostacoli, neanche in tempi di guerra dei dazi. A dispetto degli appelli di Bruxelles a ridurre il rischio dei legami economici con il Dragone, gli investimenti greenfield, vale a dire quelli legati alla creazione di nuove aziende o all'istituzione di strutture aggiuntive, sono saliti a 3,6 miliardi di euro ad aprile-giugno 2024, secondo le stime di Rhodium Group, società di consulenza basata a New York. Il trend è ben oltre l'investimento trimestrale medio dell'Ue di 1,8 miliardi rilevato dal 2022, con le imprese tedesche che hanno rappresentato il 57% del totale nella prima metà dell'anno. I primi cinque investitori risultano Volkswagen, Bmw, Basf, il gruppo svedese Ingka - che possiede Ikea - ed STMicroelectronics, il colosso franco-italiano dei microprocessori. Mentre per settore, i produttori di auto hanno catalizzato circa la metà dei flussi greenfield dell'Ue verso la Cina dal 2022.
Lo slancio è probabilmente guidato dallo scopo delle aziende di localizzare la propria produzione: in altri termini, negli sforzi per proteggere le proprie catene di fornitura mandarine dalle tensioni geopolitiche, sempre più aziende producono con la formula «in Cina per la Cina». Tuttavia, «questi investimenti rafforzano la dipendenza di alcune delle più grandi aziende tedesche dal mercato cinese in un momento in cui la riduzione del rischio economico dalla Cina è un obiettivo politico dichiarato a Berlino e Bruxelles», ha rilevato Rhodium. Questa è anche la leva che consente a Pechino di mantenere alta la pressione dopo la fiammata dei dazi Ue a carico delle e-car made in China.
L'industria Ue delle quattro ruote lotta contro la concorrenza di Pechino, alimentata da prodotti a basso costo. In settimana, Volkswagen ha annunciato l'impensabile, con la chiusura di tre stabilimenti in Germania. E martedì, Audi ha sbandierato lo stop ai veicoli elettrici nell'impianto di Bruxelles per il calo di quote di mercato in Cina. La stessa votazione Ue di ottobre sui dazi ha spaccato il gruppo dei 27 quando, ad esempio, «il governo tedesco ha votato contro», gettando le basi per «una fonte crescente di tensione nell'Ue e tra Europa e Stati Uniti», ha osservato Rhodium. La Cina è in stato di massima allerta per le tattiche 'divide et impera' che imputa all'Ue mentre proseguono i colloqui sui veicoli elettrici: l'accusa a Bruxelles è di tenere negoziati diretti con le case produttrici sui prezzi, invece di concentrarsi su un accordo generale. Di conseguenza, Saic e Geely hanno dovuto smentire l'avvio di discussioni sui dazi aggiuntivi, in vigore da giovedì, con la Commissione Ue che nel suo rapporto finale sull'indagine anti-sovvenzioni li aveva citati esplicitamente. Le parti cinese ed europea hanno condotto otto round di colloqui col contributo di 12 aziende mandarine di e-car, tra significative lacune.
Entrambi i team tecnici sono entrati in una nuova fase di negoziati, ma gli scenari sono molto complessi e le posizioni distanti. Pechino, per altro verso, prosegue la sua politica di 'divide et impera': ha redarguito i Paesi che non si sono opposti ai dazi sulle e-car (Italia inclusa), ha varato dazi provvisori sul brandy e lanciato piani per aumentare i dazi sulle auto di grossa cilindrata dal 15 al 25%, con ripercussioni sugli esportatori tedeschi, ma anche su quelli della Slovacchia, il cui premier Robert Fico è in visita in Cina. E' accompagnato da mezzo governo e da una mega delegazione di imprenditori puntando a fare del suo Paese un hub per l'industria dell'auto elettrica (e non solo) del Dragone.