Una corsa che accompagna nella leggenda uomini e macchine. Una battaglia che non ha eguali nella storia del motorsport. Sono trascorsi esattamente cent’anni da quando, alla fine di maggio del 1923, André Lagache e René Léonard, con la loro Chenard & Walcker autogestita, trionfarono nella prima edizione della 24 Ore di Le Mans. Incredibilmente 30 vetture delle 33 partite videro il traguardo il giorno dopo e la coppia francese si aggiudicò la kermesse percorrendo più 2.200 chilometri alla media di oltre 90 km/h. Non fu facile, guidando in due e su strade e vetture dell’epoca, ma certo non potevano immaginare che avevano aperto l’albo d’oro della competizione motoristica più prestigiosa del mondo. Col passare del tempo, e il progresso della tecnologia, la velocità salì, nonostante il tracciato, fatto da rettilinei collegati fra loro, venisse rallentato da curve e chicane.
Fino al 2010 quando fu segnato il record, tuttora imbattuto, stabilito da Dumas-Bernhard-Rockenfeller con l’Audi R15 TDI che percorse più di 5.400 chilometri alla media di 225 chilometri orari. Fu la vittoria dell’ingegner Diesel: un suo motore rimarrà il propulsore termico più performante alla 24 Ore, in barba del più raffinato e potente cuore a benzina inventato da Nikolaus Otto. Ogni anno, sul circuito di La Sarthe, nei giorni in cui le notte è corta e il giorno lunghissimo, vanno in onda autentici romanzi dove il finale non è mai scritto e Le Mans sceglie il suo vincitore solo nei minuti finali, dopo battaglie infinite, umane e tecnologiche. Ogni edizione è un libro, di racconti veri o verosimili.
Oltre la bravura, conta molto la fortuna: anche il campione più fenomenale da solo nulla può se non è accompagnato da soci validi e una squadra al top. Gli italiani hanno riempito pagine gloriose. Vinse Tazio Nuvolari con la 8C nel 1933 che segnò uno dei 4 trionfi consecutivi del Biscione. Poi negli anni Sessanta, 6 vittorie di fila della Ferrari con al volante, fra gli altri, Bandini, Scarfiotti e Vaccarella. Fino ai giorni nostri con i 3 trofei di Dindo Capello ed i 5 di Emanuele Pirro. Un racconto che sembra di un’altra epoca è quello dell’ultima edizione del millennio scorso quando a vincere fu l’italiano Pierluigi Martini con la barchetta BMW LMR V12. Pierluigi non fu il primo che concluse la carriera a Le Mans. ì
Nel 1970 era già successo ad Hans Herrmann che, a 42 anni, aveva promesso alla moglie che si sarebbe ritirato se avesse vinto la 24 Ore. Pensava fosse impossibile. Guidava una Porsche, che fino ad allora non aveva mai vinto, ed aveva compagni di squadra e avversari molto più quotati di lui. Ma Le Mans scelse Hans che barattò la delusione del ritiro non programmato con la gioia per la vittoria. A 38 anni, nel 1999, Martini aveva già detto basta: quella Le Mans, con la BMW ufficiale, sarebbe stata la sua ultima gara, aveva deciso di stare più insieme ai suoi figli. L’italiano guida da par suo, tutte le otto ore programmate. Velocissimo e determinato, con il solito zig zag per schivare le più lente GT.
A mezzogiorno in punto scende dalla BMW fumante che aveva portato in testa dopo una battaglia con la vettura gemella. In mente mille pensieri, ma lui stacca: mica facile pensare che quella era stata la sua ultima esibizione dopo 30 anni passati con casco e tuta. Mentre la corrida continuava, Pierluigi era tornato un “uomo comune”, lasciando i ricordi ed il sudore sotto una tonificante doccia. «Stavo andando a godermi il finale quando il direttore sportivo Berger mi mandò a chiamare - racconta il pilota - Dalmas e Winkelhock, due campioni veri, non riuscivano ad essere veloci come me. La Toyota stava recuperando, prima della bandiera a scacchi ci avrebbe ripreso e superato. In pratica, mi invitò a rimettermi in macchina per fare le ultime due ore e mezza».
Basta un attimo per tornare piloti: «Quando sono salito la V12 non aveva più margine, la GT One giapponese era li con noi. Ma il feeling con il tracciato e l’auto, era alto, in pochi giri avevo ricostruito il mezzo minuto di vantaggio. Gli orientali tentarono l’ultimo colpo: sulla vettura di Katayama decidono di non cambiare le gomme e il nipponico torna in scia. Sento dei strani rumori alla coppia conica, un particolare che aveva già ceduto già durante le simulazioni. Continuo a spingere ma ho poche speranze quando uno dei loro pneumatici esplode. Le Mans aveva scelto me, sono potuto arrivare al traguardo senza frustare l’auto». La casa di Monaco ha fatto altre imprese alla 24 Ore. La mitica 328 nel 1939 vinse la sua classe a Le Mans (prima di aggiudicarsi la Mille Miglia del 1940 con il record di velocità rimasto imbattuto), nel 1995 la McLaren con il motore V12 di Monaco fu l’unica GT a battere i prototipi, una cosa mai più avvenuta.