Ho una vita felice e ho avuto una carriera professionale entusiasmante. Dell’attività di pilota, però, mi rimangono due grandi rimpianti. Primo, di non aver conquistato un titolo mondiale di Formula 1 guidando una Ferrari, secondo di non avere mai vinto la 24 Ore di Le Mans. Ho disputato ben otto edizioni della prestigiosa corsa endurance, ma non sono riuscito andare oltre un secondo posto assoluto e un primo di classe. Iniziai a frequentare il circuito della Sarthe nel 1966 quando per il team Holman&Moody mi fu affidata una Ford GT40 MK II, in coppia con Lucien Bianchi, il prozio milanese, trapiantato in Belgio, dello sfortunato Jules, vittima del drammatico incidente di Suzuka dello scorso anno. Esperienza che ripetei nella stagione successiva.
In entrambe le occasioni fummo appiedati da un guasto. Lucien, purtroppo, nel 1969, proprio a Le Mans nel corso di un test primaverile, si schiantò con la sua vettura e non ebbe scampo. In quel periodo cominciai ad alternare le mie presenze sia nella corse endurance che in F1, dove ero stato chiamato da Colin Chapman per guidare la Lotus. Ma mi restava sempre il tarlo delle gare di durata, dopo il mio debutto del giugno 1966 con una Ferrari alla 24 Ore di Daytona, dove mi piazzai terzo con Pedro Rodriguez. E devo dire che ebbi occasione di prendere il volante di ogni tipo e marca di auto: dal Cavallino Rampante, alla Ford, all’Alfa Romeo alle Porsche. In totale mi schierai in 31 di questo affascinante genere di corse. Con la Ferrari 312 PB insieme a Jacky Icks inanellai anche quattro successi consecutivi: alla 6 Ore di Daytona, alla 12 di Sebring, alla 1000 km di Brands Hatch e alla 6 Ore di Watkins Glen. Nel 1974 vinsi anche una 1000 km di Monza con Arturo Merzario con l’Alfa 33TT.
Mentre la mie apparizioni in F1, con risultati molto deludenti, a partire dal 1981, si esaurivano, ripresi a competere nella Cart, conquistando ancora il titolo nell’84, ma sognavo sempre una strada che portava a Le Mans. Mi ero quasi intestardito su quell’obiettivo. E affrontai altre sette volte il circuito de La Sarthe, prima con una Mirage M12-Ford, con le Porsche, tranne che per l’ultima 24 Ore effettuata nel 2000, al volante di una Panoz con David Brabham e Jan Magnussen.
A dire il vero, nel 1982, con quella Mirage, dividevo il volante con mio figlio Michael, che all’epoca aveva appena vent’anni, fummo squalificati. Quasi uno scandalo: avevamo passato tutte le verifiche tecniche senza problemi, ma a un’ora dalla partenza ci esclusero dalla gara perché durante un ultimo controllo si accorsero che una radiatore dell’olio, posto dietro al cambio, era spostato di 2 centimetri e mezzo. Noi non lo avevamo mai toccato dal primo giorno! Ci prendemmo però, una bella rivincita l’anno dopo, conquistando il terzo gradino del podio.
Avevamo a disposizione una Porsche 956 di gruppo C del team Kessel. La squadra ci impose come terzo pilota il francese Philippe Alliot. Io non lo conoscevo e avevo dei dubbi sulle sue prestazioni. Invece si rivelò veloce. La nostra vettura era privata e del 1982, quindi molto meno rapida di quelle ufficiali. Gestendo bene la gara, riuscimmo, soprattutto di notte e grazie anche gli inconvenienti che avevano messo in difficoltà alcuni dei nostri diretti avversari ad arrivare sino al secondo posto verso la 18.a ora di gara. Ma nel finale fummo costretti a rallentare a causa dei consumi eccessivi di carburante, mentre le auto della Casa filavano come razzi.
Vinsero Holbert, Haywood e Shuppan. Ickx e Bell, che avevano avuto un incidente poco dopo il via, al secondo giro con la gemella guidata da Lammers, ci sorpassarono alla grande. Ci restò la soddisfazione nel terzo posto, ma primi fra le Porsche private. E fu una delle mie gare più belle nel circuito francese.
Ma avrei avuto l’occasione migliore per vincere nel 1988 quando ottenni un sesto posto gareggiando con tutta la mia famiglia, cioè mio figlio Michael e mio nipote John, con una Porsche 962C ufficiale. Giravamo come orologi, in perfetta armonia e con prestazioni simili a ogni cambio di pilota, costantemente in terza posizione nelle prime sei ore di gara. In base ai calcoli effettuati dalla squadra e anche dalla Porsche, eravamo in linea perfetta con i consumi calcolati, mentre le altre vetture di Stoccarda avevano abbondantemente superato i limiti e sarebbero state costrette a rallentare.
Ma, all’una di notte, all’improvviso, per un problema elettrico il motore perse un cilindro. La macchina era talmente robusta e completa che non ci costrinse al ritiro. Tuttavia la nostra velocità si ridusse drasticamente. Tagliammo il traguardo al sesto posto, con 5 cilindri. E la Porsche venne beffata dalla Jaguar XJR.9LM di Lammers, Dumfries e Wallace. Una delusione enorme. Sette anni dopo, nel 1995, mi ritrovai ad affrontare nuovamente la sfida nell’abitacolo, diviso con con Wollek ed Hélary, di una Courage C34 motorizzata ancora dalla Porsche.
Era una delle vetture migliori e più competitive. Ma il nuovo regolamento ci penalizzava, soprattutto per i consumi nei confronti persino delle GT che erano arrivate in massa con una squadrone di McLaren GTR spinte da un propulsore BMW V12 da 6 litri. Anche quell’anno avremmo potuto conquistare il successo. Ce l’avremmo fatta se io non fossi uscito di strada per evitare una vettura della Kremer, danneggiando l’alettone posteriore. Perdemmo circa mezz’ora ai box per le riparazioni. Avremmo ancora potuto recuperare, se non fosse arrivata una pioggia battente, che favorì le GT, vetture coperte mentre noi eravamo con le spider. Recuperammo comunque arrivando secondi e primi di classe WSC, a un solo giro dalla McLaren di Dalmas, Sekiya e Lehto. Forse era destino che non dovevo coronare il mio sogno. Corsi ancora nel 2000, con una Panoz Roadster, molto veloce, ma delicata. Eravamo primi nell’ora iniziale, poi per i troppi problemi scivolammo sino al 15° posto finale. Avevo sessanta anni ed era arrivata l’ora di abbandonare.
Nel mio lunghissimo periodo d’attività ho disputato 879 gare, ne ho vinte 111, conquistando 109 pole position. E mi sono tolto tutte le soddisfazioni possibili: dal Mondiale di F1 del 1978, al campionato Cart, sino alla 500 Miglia di Indianapolis. Certo, la guida di una monoposto è molto diversa da quella di una vettura per le gare endurance. Mi era sempre piaciuto sorpassare appena arrivavo alle spalle di un rivale. Nelle corse lunghe bisognava fare i conti con i consumi e tante variabili.
Ma sento che avrei potuto farcela. Purtroppo la Ferrari si era ritirata da Le Mans alla fine del ‘67 e questo è un altro rammarico che mi è rimasto. È un mito, e non solo per noi italiani. In tempi non sospetti quando era ancora alla Red Bull, Sebastian Vettel mi aveva confessato che sperava di correre un giorno per il Cavallino. Ora è felice. Devo dire che il cuore della Ferrari è più rosso degli altri.