C’è stata un’epoca in cui non esistevano né scuole di pilotaggio né strutture come la Ferrari Driver Academy. Se avevi mezzi per finanziarti “in proprio” potevi avvicinarti al mondo delle corse per “tentare l’avventura”, ma se proprio volevi diventare pilota professionista dovevi confidare sull’interessamento di un costruttore o di un preparatore che individuasse nelle tue qualità lo strumento giusto per promuovere il proprio mezzo meccanico. L’epoca degli sponsor era di là da venire, quelli che c’erano erano mosche bianche.
Era così che funzionava negli anni 50/60 del secolo scorso, gli anni in cui non si gareggiava solo in autodromo, ma anche su circuiti stradali, con macchine già velocissime, ma tremendamente insicure. Ed era così che si formavano carriere approdate, in alcuni casi, al successo, in altri stroncate da eventi drammatici, in altre ancora rimaste in sospeso tra professionismo e dilettantismo, tra gloria e delusione, ma con la consapevolezza di aver dato il meglio, e di sentirsi comunque appagati.
E’ a quest’ultima categoria che appartiene Antonio Maglione, 86 anni, napoletano di buona e benestante famiglia trapiantata a Roma, autore d’una autobiografia tutta da leggere (80 Voglia di raccontarmi, NeP Edizioni, 25,00 euro), grazie alla quale non solo si ripercorre la storia sportiva del protagonista di un’irripetibile epoca del motorsport, ma si scopre anche un mondo sconosciuto ai giovani delle nuove generazioni, quello della “meglio gioventù napoletana” e quello della “dolce vita romana”, la prima vissuta nella città natale, nel quartiere Vomero; l’altra nella capitale, con il papà (Mario Maglione fu grande imprenditore e finanziere, nonché proprietario di auto da sogno come Ferrari e Maserati). Il resto, una volta appeso il casco al chiodo, tra gli affetti familiari, accanto all’adorata moglie Gabriella, ai figli, ai nipoti e ai pronipoti, ma con un grande rimpianto: aver perso l’occasione per cimentarsi ai massimi livelli, in Formula 1, con la Ferrari, dopo aver sfiorato l’agognata “promozione”.
La carriera sportiva del giovane Antonio ebbe inizio alla fine degli anni 50, nelle corse su strada, cimentandosi in cronoscalate ormai dimenticate come la Agnano-Cappella dei Cangiani, la Sorrento-Sant’Agata, la Targa Vesuvio, alle porte di Napoli, disputate al volante di una piccola Fiat 750 Abarth (la progenitrice della 850 TC Nurburgring). I primi successi con un’Alfa Romeo Giulietta Ti (campione italiano Classe 1300 nel 1958), poi il “gran salto” in monoposto, con la Formula Junior De Sanctis, la prima a utilizzare il motore posteriore, al volante della quale Maglione si mise in gran luce, trionfando anche “in casa”, nel Gran Premio di Posillipo del 1960. Poi, dopo una lunga pausa, il ritorno in pista, nella più impegnativa e spettacolare Formula 3 degli anni d’oro.
Coraggioso e intraprendente come il papà, il giovane Antonio ha lavorato, in Italia e all’estero, nella produzione di olii lubrificanti, nelle costruzioni di strade e ponti, nelle strutture alberghiere e turistiche, nel mercato delle auto d’epoca. Ma il leit motiv della sua vita, magistralmente raccontata nell’autobiografia scritta con la collaborazione dell’ex giornalista di Rai Sport Lino Ceccarelli (suo amico del cuore, nonché ex agente) sono state le corse. E tra via Veneto e i box di Vallelunga, dov’era di casa, non ha mai avuto dubbi, Maglione: meglio l’autodromo di Campagnano, tra piloti e meccanici, spesso con l’inseparabile amico Lino e i suoi colleghi giornalisti Marcello Sabbatini, Renato D’Ulisse, Bruno Nestola, Sergio Favia del Core, Federico Urban, Oscar Orefici, Carlo Micci, indimenticati testimoni di un’epoca d’oro del motorsport, nonché “compagni di merende” in allegre tavolate nella celeberrima osteria di Righetto a Campagnano.
Non sono state molte le corse disputate in carriera da Maglione, lui stesso racconta che sono state non più d’una settantina in cinque stagioni piene, ma con 26 vittorie (una ogni tre gare!), 40 podi, 7 successi in Formula Junior, un titolo italiano, un promettentissimo inizio in Formula 3 e un finale di carriera culminato nel titolo di campione d’Europa per auto storiche, con la Giulietta TI della Scuderia del Portello, in coppia con Marco Tajani, e nella vittoria di categoria nella Carrera Panamericana, in coppia con Prisca Taruffi, al volante di una Giulietta Sprint Veloce.
Tra i meriti dell’autobiografia ce n’è uno che si fa apprezzare più di altri, per le dettagliate rivelazioni su fatti (non inediti, ma scrupolosamente ricostruiti) risalenti all’inizio degli anni 60, quando Enzo Ferrari accettò l’idea di mettere a disposizione di un giovane pilota italiano promettente una delle sue monoposto di Formula 1, la 156 “muso di squalo”, per partecipare al Mondiale, sia pure in forma ufficiosa.
Maglione fu seriamente in lizza per la promozione alla massima categoria. Ma l’auto di Maranello venne affidata a Giancarlo Baghetti, che nei fatti dimostrò di meritarla, imponendosi subito nei gran premi di Reims e Napoli. Sul come e sul perché si arrivò a quella scelta c’è però molto da raccontare. E nelle pagine dedicate allo smacco subìto da Maglione il racconto si fa appassionante, tutto da leggere.
Conseguenza della delusione fu la scelta di ritirarsi dalle corse, salvo poi ritornare a gareggiare, cinque anni dopo, nella categoria Gran Turismo, con una Ferrari 275 GTB, assieme al fratello Mario. Era il 1965. La scintilla era scoccata, la passione riaccesa. E quando il suo vecchio amico Gino De Sanctis gli propose di guidare una 1000 Sport a Vallelunga, dove Maglione era considerato imbattibile, accettò di buon grado. E fu subito vittoria. Tanto bastò per decidersi a tentare, col “sor Gino”, l’avventura in Formula 3: la Formula 3 di un’epoca irripetibile, quella dei ripetuti “corpo a corpo” a 200 e passa kmh e emozionanti arrivi in volata, sul filo dei decimi di secondo, con protagonisti piloti del calibro dei Brambilla, Facetti, De Adamich, Manfredini, Picchi, Natili, Nesti, Francisci, Perdomi, Geki Russo, per non dire di certi stranieri che rispondevano ai nomi di Regazzoni e Williams…
La tragedia di Caserta – 18 giugno 1967 – che costò la vita a due dei suoi amici più cari (Romano Perdomi e Geki Russo (oltre a quella dello svizzero Fher) provocò un altro strappo. “Mi venne ingiustamente ritirata la licenza, sia pure per soli quattro mesi – racconta Maglione – ma né io né Tino Brambilla, fino a quel momento al comando, avevamo alcuna responsabilità per ciò che era accaduto. La colpa fu tutta dei commissari che non esposero alcuna bandiera per segnalare l’incidente”.
Ce n’era abbastanza per dire basta. Ma la passione è come un tarlo. E Antonio Maglione è tornato a cimentarsi, anche in età avanzata, con le auto storiche, decidendosi a mollare soltanto quando un problema alla vista e i regolamenti gli hanno impedito, compiuti gli 80 anni, di rinnovare la licenza. “Oggi – confida – mi godo nipoti e pronipoti e resto in contatto con i miei amici più cari, quelli della “meglio gioventù” d’una volta, tutti contagiati come me dalla passione per le auto, i motori, le corse. Abbiamo anche una chat denominata Casco Azzurro nella quale ci confrontiamo sulla Formula 1, l’evoluzione tecnica, i piloti… e riusciamo a fare anche progetti, proprio come quand’eravamo ragazzi”.